Francesco Totti, capitano e bandiera della Roma, ha rilasciato una lunga intervista al Corriere dello Sport (W.Veltroni). Queste sono le dichiarazioni del numero 10 giallorosso:
Francesco, il primo tuo ricordo del calcio, da bambino?
«Il primo ricordo del calcio è sotto casa, è davanti a scuola. C’era un parco grande, dove c’era la possibilità di giocare con gli amici di scuola, con i miei cugini. Quello è il mio primo ricordo di un pallone, il primo ricordo di calcio». Quanti anni avevi? «Forse cinque o sei».
E la tua stanza com’era a casa?
«La mia stanza era tappezzata di giallo e rosso. Era una stanza della Roma. C’era un grande poster del mio idolo di allora, Peppe Giannini. C’erano ovunque sciarpe, magliette. Era gialla e rossa, come una curva».
A scuola come andavi tu?
«A scuola andavo a piedi. Di fronte a casa mia c’era la scuola. Da piccolo facevo la mia figura. Un 6 perfetto, né più né meno, che se no si esagerava».
E quanto tempo dedicavi al calcio?
«Tanto, avevo un piano perfetto: uscivo da scuola all’una, mangiavo di corsa e dall’una e mezzo alle due, massimo, studiavo. Ma poi, appena sentivo il rumore del pallone dei miei amici sotto casa, dicevo a mamma che avevo studiato tutto e scendevo. Restavo dalle due fino alle 7 e mezzo-otto, tutti i giorni, tutto l’anno».
Dalla strada alla Roma come ci sei arrivato?
«Dalla strada alla Roma ho avuto un percorso giusto. Ho giocato prima sotto casa, alla Fortitudo, sono stato tre anni là e poi sono passato alla Smit di Trastevere. Con quella squadra di rione un giorno disputammo un’amichevole con la Roma. Non giocai, non mi fecero giocare perché ero più piccolo rispetto agli altri. Però mi misi a palleggiare da solo a bordo campo. C’era Ermenegildo Giannini alla Roma, in quel periodo. Mi guardò e mi prese senza che giocassi».
Un genio.
«Era intelligente. Uno che capiva di calcio».
E quindi ti disse vieni a giocare alla Roma?
«Sì, poi è arrivata una lettera dove mi volevano portare alla Roma. Invece poi andai alla Lodigiani per tre anni fino a undici anni e a dodici tornai alla Roma».
Ma eri già così forte? Da bambino eri già così forte?
«Ero bravino. Ero piccolo, ero magro magro. Avevano paura che non crescessi. Perché ero veramente un tappo, mi chiamavano gnomo. Ero basso, secco e invece man mano che passava il tempo sono cresciuto. E, fortunatamente, sono diventato così».
Ci sono le immagini di quella tua partita con Nesta da bambino. Te la ricordi quella sfida?
«Sì, con Alessandro ci siamo incontrati da quando avevo dodici anni perché abbiamo fatto tutta la trafila del settore giovanile. Io con la Roma e lui con la Lazio perciò eravamo già amici nemici, come si dice. Però in quella partita eravamo, mi sembra, a Primavalle. Era la finale Lodigiani- Lazio e vincemmo 1 a 0 con mio tiro su punizione. Però loro erano forti perché c’era Di Vaio, c’era Nesta, giocatori che poi hanno giocato in serie A».
Cristian ha più o meno l’età che avevi tu. E io mi ricordo una volta che venisti in Campidoglio con Cristian. Tuo figlio adocchiò una palletta sul mio tavolo e tu mi dicesti “‘sto ragazzino come vede una palla perde la testa, chissà come mai…”. Come è adesso Cristian, è forte?
«E’ bravino, è migliorato. Prima era più un giocherellone, pensava più a divertirsi. Oh, ancora si diverte un sacco, io lo so come vive le giornate. Mi sembra di rivedere me stesso. Ma vedo che adesso ci sta mettendo più voglia, più passione. Va ad allenarsi, va a giocare con più continuità, vedo che gli piace. E’ forte , ma mica come il padre quando era piccolo…».
Tu vorresti che facesse il calciatore?
«Da una parte sì e da una parte no. Da una parte sì perché se lui ha questa voglia, ha questa passione, è giusto che faccia quello che sente. Però dall’altra con il cognome che si ritrova non è semplice. Già adesso va a fare i tornei con gli amici a Sabaudia o da altre parti, fa quindici o venti goal e per questo lo premiano come miglior giocatore. Allora tutti dicono “Eh sì, lo premiano perché è il figlio di Totti..”. Non contano i quindici gol di un bambino, conta il cognome del padre. Mi dà fastidio perché poi quando si parla di bambini, veramente, si deve parlare sempre in maniera positiva, cioè non essere gelosi, o pensare sempre al male di tutto. Un bambino si diverte a correre e tirare. Se ha la fortuna o la sfortuna di chiamarsi Totti non è mica colpa sua».
Il figlio di Zidane gioca nel Real Madrid.
«Perché è il figlio di Zidane?»
Se non fosse forte non giocherebbe.
«Come Maldini».
E certo. Senti, Roma, cosa è per te Roma?
«Tutto, tutto. La città e la squadra, tutto. Roma città, non perché sono romano, ma la reputo la città più bella del mondo. Ha tutto: mare, montagne, monumenti, sole. Ha la passione dei romani. E poi la Roma nel calcio. Ho sempre tifato per questa squadra. Quei colori erano nella mia stanza e nei miei sogni fin da piccolo. Io ho indossato per venticinque anni questa maglia, l’unica che abbia avuto, porto la fascia da capitano. Cosa dovrei volere di più dalla vita?». E del carattere dei romani qual è la cosa che ti piace di più? «La sfrontatezza, la sincerità, il sorriso, la passione in tutte le cose che fanno. Ci mettiamo un di più, e si vede». Una cosa che a te è sempre piaciuta è prendere per i fondelli il prossimo. E’ una cosa tipica dei romani, da Pascarella e Trilussa fino a Alberto Sordi. Uno è romano vero se prende in giro l’altro e se si fa prendere per i fondelli. Chi è stato nella tua carriera di giocatore quello che ti è piaciuto di più prendere in giro? «Un giocatore solo? Ne ho risparmiati pochi. Diciamo un po’ tutti. Anche perché i nuovi che arrivano a Roma e non conoscono bene i romani, prima che capiscano le battute ci passa un campionato. Però quello con cui mi sono trovato più a mio agio è Candela, Candela è francese, ma è un francese della Garbatella. Lo abbiamo adottato, fatto romano, diciamo. E’ diventato romano doc , lui è intelligente, furbo, perciò anche allora riusciva subito a capire le battute che gli facevo».
Hai raccontato in occasione del tuo quarantesimo compleanno che, ad un certo punto, sei stato indeciso se andare via dalla Roma, al Real Madrid. Mi racconti un po’ quel passaggio?
«Sì, era il 2003. C’era Capello con i Sensi , ma vivevamo un momento molto particolare tra me e la società, alcune cose non andavano nel verso giusto. Avevo chiesto alcune cose specifiche. Loro non è che non volessero accontentarmi ma sembravano ignorare le mie aspettative. Il Real Madrid spingeva a tutti i costi perché giocassi da loro. Era l’unica squadra al mondo per la quale io, a malincuore, avrei potuto lasciare Roma. Ci pensai seriamente. Però alla fine la famiglia, gli amici, mia moglie, mi hanno aiutato a capire tante cose, così sono rimasto qua. E considero che sia stata una fortuna».
Tu non ce l’avresti fatta ad andar via da Roma?
«Adesso dico di no però in quel momento ero abbastanza deciso. Anche perché non è che andavi in una squadra normale. Andavi nella squadra più forte del mondo».
Cito una cosa della quale sono stato testimone: tu proprio in quegli anni decidesti di dare una mano per salvare la Roma. C’entrava anche il tuo forte legame con il presidente Sensi e con la famiglia…
«Sì, è una cosa che non tutti sanno. E’ stata una cosa mia, volevo aiutare la famiglia Sensi che ha fatto tanto per la Roma. Ma non mi vergogno di niente, anzi sono stato contento che non sia uscito più di tanto, che non se ne sia parlato tanto. L’ho fatto veramente per la squadra, per i colori che ho sempre amato, per i Sensi perché loro mi hanno trattato sempre come un figlio. Per me quando c’è il rispetto c’è tutto e siccome mi hanno sempre portato rispetto, io ho cercato di ricambiare, per quel che potevo».
Come immagini il tuo futuro adesso?
«Non so quello che mi riserverà il futuro. Però so che sarà una cosa piacevole, sarà un’altra vita, un’altra carriera bella. Sinceramente non so cosa farò. Però spero di rimanere per sempre nella Roma. Questo è il mio desiderio, e mi auguro e voglio aiutare la società nella quale ho speso la gran parte della mia vita. Sarei davvero felice se potessi essere di aiuto alla Roma».
Ti piacerebbe allenare?
«Da una parte sì. Però in questo momento non ci penso perché, conoscendo il mio carattere, forse non saprei gestire un gruppo. Però, in effetti, vedo tutti i miei ex compagni che appena smesso di giocare hanno preso questa carriera d’allenatore. Mi sa che scatta qualche cosa dopo, perché tutti si mettono a fare gli allenatori e allora può darsi pure che scatterà qualche cosa anche a me. Che ti devo dire: cambierò carattere, cambierò modo di impostare tante cose».
Quale è il momento di tutta la tua vita calcistica in cui sei stato più felice?
«Più felice? Vabbè, leviamo la vincita dello scudetto perché era un mio obiettivo di tutta la vita. Però, sai che ti dico? Penso che il momento più felice sia quest’ultimo periodo. L’ultimo anno che ho passato è stato veramente brutto, perché non mi aspettavo tante cose, non me le aspettavo sotto tutti i punti di vista. Però alla fine l’orgoglio, la passione, la determinazione, lo spirito, il mio carattere mi hanno aiutato a cambiare molte cose e ora sto davvero bene e mi sento come quando ero ragazzo. Sono sereno».
E invece il momento più duro quale è stato?
«Gli infortuni inaspettati, gli infortuni brutti. Ne ho avuti di terribili. In quei momenti riesci a capire veramente la forza di un uomo. Mi sono rialzato dopo due o tre situazioni non semplici e lì ho capito che avevo un carattere forte e una voglia di giocare che non finiva».
Prendiamo due momenti invece nella Nazionale. Uno brutto e uno bello. Quello brutto è Poulsen agli Europei. Come te lo ricordi?
«Me lo ricordo… Sicuramente me lo ricordo, me lo ricordo come un brutto giorno. Dissero, e doveva essere vero, che avevo sputato a Poulsen. Ma io sinceramente tuttora ripeto che neanche mi sono reso conto, neanche me lo ricordo. Cioè adesso mi ricordo tutto, però in quel contesto non mi ricordavo di aver fatto un gesto simile perché non è da me. Uscì la sentenza con la squalifica e io mi sarei messo sotto terra in quel momento. Però purtroppo capita, è capitato anche a giocatori come Zidane o Maradona. Purtroppo queste sono cose che succedono nel calcio e io ci sono passato. So quello che ti dicono in campo e tante cose ti feriscono, però il campione riesce a voltare pagina. Deve voltare pagina».
Che ti aveva detto Poulsen?
«No, ti giuro, dall’inizio della partita mi ha gonfiato di botte. Nel senso che mi acciaccava i piedi, mi dava i pizzichi, anche se la palla stava lontana, a cinquanta metri, lui di dietro bum, mi dava una botta. In quella partita poi faceva caldo, erano le tre del pomeriggio, non riuscivo a fare le giocate giuste, che volevi che facessi? Cose che durante la partita purtroppo ci stanno, che ti capita una partita un po’ negativa, per di più ti si mettono questi dietro che bum bum bum, ti corcano di botte, e mi sono girate… che ne so che mi è passato per la testa. Però ho chiesto scusa, mi sono dispiaciuto di tante cose. So che rappresentavo l’Italia in quel momento. Però alla fine è passato, basta aspettare. E l’altra domanda che mi dovresti fare, no? Ti anticipo…».
I Mondiali? No, invece ti faccio quella sul cucchiaio.
«L’Europeo era il mio primo Europeo nel 2000 e penso che feci un grande torneo. Quasi vincemmo la finale con la Francia, che fu invece persa malamente. Loro pareggiarono agli ultimi tre secondi della partita, una partita in cui potevamo fare tre o quattro goal. Però il calcio è bello anche per questo, perché ti riserva sorprese inaspettate. Alla fine abbiamo perso con il golden gol, però io, personalmente, penso di aver fatto veramente un grande Europeo».
E quel cucchiaio come ti venne in mente?
«Quel cucchiaio mi venne in mente durante la settimana con Maldini, Di Biagio, Inzaghi. Provavo i rigori, a fine allenamento provavamo i rigori. Io scherzando con Maldini, Albertini e con Nesta, dissi “Se dovessimo andare ai rigori gli faccio il cucchiaio”. E loro cominciarono a dire ma che sei matto, è la partita semifinale dell’Europeo. Io dissi vabbè io lo faccio poi… poi qualcuno diceva ma lascia stare, qualcuno diceva non hai coraggio, sai i calciatori sono un po’ strani… Poi durante la partita siamo andati, Dio ha voluto che siamo andati, ai rigori. Io stavo lì al centrocampo, e tutti mi guardavano perché prima della partita gli avevo detto io gli faccio il cucchiaio, e loro mi avevano detto ma che sei scemo… Di Biagio ha scosso la testa e ha detto quello lo fa perché è matto. Mi sono incamminato, la strada era lunga, e di fronte c’era un muro di tifosi arancione. Van der Sar era alto tre metri e mezzo, penso, copriva tutta la porta e mi sono detto mò che faccio? Lo faccio, non lo faccio? Però ormai ho dato la parola, che faccio mica posso tirarmi indietro. Niente, l’arbitro ha fischiato però io pensavo sempre: pensa se lo sbaglio. Niente: poi fortunatamente è riuscito, sto benedetto cucchiaio e meno male che quel lungagnone s’è buttato dall’altra parte, perché sennò mi avrebbero ammazzato».
«L’arbitro Moreno diciamo è stato… un po’ particolare in quella partita, un po’ casalingo. Mi è dispiaciuto, perché quell’anno veramente potevamo vincere, potevamo arrivare fino alla fine del mondiale e invece quella partita è stata un po’ troppo a favore della Corea e io ho avuto queste due ammonizioni. La prima inesistente, nella seconda ci doveva essere un calcio di rigore per noi. Invece quel tipo mi ha ammonito per simulazione e poi mi ha buttato fuori. Lì è cambiata totalmente la partita».
Chi è il giocatore più forte con cui hai giocato?
«Tecnicamente Cassano. Cassano, perché parlavamo sul campo, ci trovavamo in qualsiasi momento, sotto tutti i punti di vista. Poi con lui avevo un grandissimo rapporto anche fuori dal campo, perciò c’era sintonia totale. Stiamo parlando di uno dei giocatori più forti non in Italia ma anche in Europa, perché lui tecnicamente è un fenomeno. Poi Batistuta, Montella, quelli sono giocatori che hanno fatto la storia del calcio. Vanno ricordati perché era un piacere vederli e ho avuto la fortuna di giocarci anche insieme».
Noi abbiamo vissuto insieme, nei diversi ruoli, due momenti di festa: lo scudetto del 2001 e poi la notte incredibile in cui tornaste dal mondiale 2006. Come te le ricordi quelle due feste? Eravamo al Circo Massimo tutte e due le volte…
«Due colori diversi. Una tutta giallorossa e una tutta blu. Però due ricordi indimenticabili, perché penso che per un giocatore romano aver vinto le cose più importanti da vincere e poterle festeggiare con la propria città… Sono ricordi troppo belli troppo… che rimangono dentro, ricordi bellissimi. La gente impazzita, la gente che avrebbe fatto qualsiasi cosa, le stesse che avrei fatto io se fossi stato da quella parte della vita. Sicuramente avrei agito come hanno agito loro. Come ho detto prima i romani sono belli per questo, perché sono focosi, sono passionali, tutto quello che ti possono dare te lo danno. L’amore che ti dimostrano è veramente al cento per cento».
Chi è l’allenatore con cui ti sei trovato meglio nella tua carriera calcistica?
«Zeman era quello con cui mi sono trovato meglio di tutti. Anche con gli altri, più o meno. Ma io non ho avuto mai problemi con gli allenatori perché poi alla fine ho fatto sempre il mio dovere, li ho sempre rispettati e, questo lo ribadisco un’altra volta, io alla Roma non ho mai cacciato via un allenatore, non ho mai voluto un allenatore. Ha fatto sempre tutto la società. E’ inutile che fuori dicano Totti ha cacciato via quello o ha voluto quell’altro, io non ho mai messo bocca su niente. Questo lo voglio precisare perché è giusto si sappia la verità. Per me chi veniva veniva, l’importante era che fossero allenatori autorevoli, allenatori vincenti. Poi è normale che ci siano allenatori più forti e meno forti. Però il rapporto, il rispetto, è stato con tutti uguale. L’unico con cui ho avuto un po’ di problemi è stato Carlos Bianchi. Però ancora ero giovane e lui non è che era molto attento ai giocatori romani perché a lui piacevano più gli stranieri. Lui, essendo argentino, conosceva tanti giocatori stranieri perciò i romani non è che lo convincessero tanto. Poi essendo io giovane aveva cercato in tutti i modi di spingermi verso altri orizzonti».
Per farti cambiare squadra?
«Sì e anche lì è mancato pochissimo, perché mi ero messo d’accordo con la Sampdoria. Firmai con la Sampdoria e il giorno dopo ci fu un torneo all’Olimpico con Ajax e Borussia Dortmund. Fu la sera prima che io andassi alla Sampdoria. Ma gli dei di Roma si ribellarono e fu una serata magica, per me storica. Forse sarà stato il destino, ma quella sera feci due goal sia all’Ajax che al Borussia Dortmund. All’Ajax c’era un giocatore molto forte che Carlos Bianchi voleva a tutti i costi. Ma dopo la partita il presidente Sensi s’impuntò e disse: lui da qua non va via. Alla fine saltò tutto con la Sampdoria e rimasi in giallorosso. Bianchi disse o Totti o me e Sensi disse Totti. E da lì è cambiato tutto…».
Con Spalletti come ti trovi?
«Con Spalletti bene, ho un buon rapporto. Un rapporto che va oltre anche il calcio. Una bella persona, una persona che ha i propri valori, che per me ha fatto tanto, una persona che vuole vincere, un allenatore che ha una cultura calcistica superiore alla media. E per me la Roma ha fatto un grande investimento riprendendo questo allenatore».
Due cose che sono cambiate nel calcio. La prima: ti sembra che ci sia più fisicità e meno tecnica?
«Sì, rispetto a prima c’è più fisicità e meno tecnica. Direi purtroppo, dal mio punto di vista. Se stai bene fisicamente riesci a fare tante cose. Però se poi non hai la tecnica non è semplice farle, nello stesso tempo. Alla fine la testa è la cosa più importante di tutte, sia del fisico che della tecnica, perché se stai bene di testa riesci a fare entrambe le cose».
La seconda cosa è che gli stadi sono quasi vuoti. Che impressione ti fa? Gran parte della tua carriera si è svolta in stadi sempre pieni. Adesso, salvo qualche eccezione, sono vuoti e malinconici.
«Vedere lo stadio della Roma vuoto ti mette angoscia. Senti le voci, senti le urla delle persone, ma ero abituato a giocare con 40-50 mila persone ed ora è diverso. Per la squadra è diverso, c’è più voglia quando ti incitano, diventa difficile anche per gli avversari venire all’Olimpico e sentire questa gente che ti sta sul collo, ti mette pressione. Spero che si possa risolvere questo problema della Curva. Non so da cosa dipenda, però basta. Basta con queste barriere. È il momento di trovare una soluzione: levassero queste barriere, abbiamo bisogno della nostra gente. Con loro è tutta un‘altra cosa. Chi sbaglia deve pagare individualmente, come è giusto che sia. Solo a Roma c’è questo problema, ma Roma è una città come le altre. Vogliamo la gente appassionata che venga a tifare la Roma e ci aiuti a condividere sensazioni e gioie. Vorrei sentirli di nuovo vicini, vorrei che, in attesa di trovare una soluzione, intanto tornassero. Su questo tema dobbiamo essere tutti uniti: società, squadra e tifosi».
Io ho misurato l’attenzione che tu hai avuto nei confronti di persone che stavano male e alle quali magari avrebbe fatto piacere conoscerti. Siamo andati insieme, senza fotografi o telecamere, in ospedale da bambini che non ce l’avrebbero fatta… Tu quanto senti di dover restituire della fortuna che hai avuto, prodotto del tuo talento, alla tua città, alle persone che hanno avuto meno fortuna di te?
«Le ho fatte con il cuore, non con le telecamere. Le ho fatte perché era giusto farlo, non perché si sapesse. Ho sostenuto tante iniziative benefiche, ho fatto tante sorprese a tanti bambini che non stavano bene negli ospedali. Queste sono cose che mi aiutano e mi fanno sentire bene. Perché ho la fortuna, come ho detto prima, di essere un privilegiato: ho la salute, ho i soldi, ho il lavoro, ho la famiglia e vedere queste persone che soffrono mi dà dolore. Ho aiutato in silenzio tante persone e le aiuto tuttora. Sento questo come qualcosa di doveroso per me, è importante per la mia vita».
C’è una maglietta di una partita che tu vorresti portarti su un’isola deserta? Se dovessi sceglierne una, una sola.
«Penso “Vi ho purgato ancora”».
Quindi lo rifaresti?
«Lo rifarei, però ormai basta. Quella era la gioventù. Quando sei giovane puoi fare queste cose. Ormai a quarant’anni hai più esperienza e cerchi sempre di essere attento a tutto. Però quelli sono sfottò che ci possono stare, anche perché prima era diverso: c’era più divertimento, c’era più armonia, più gioco. Quando vincevi o perdevi, sapevi che se vincevi potevi dire qualsiasi cosa e se perdevi accettavi tutto quello che dicevano loro. Era bello anche per questo. Invece adesso le cose un po’ sono cambiate. In peggio».
C’è un giocatore della Lazio del quale sei stato amico?
«Nesta. Nesta o anche Di Vaio. Siamo cresciuti insieme, anche se in due sponde diverse, però alla fine abbiamo in comune un’amicizia veramente vera, bella».
Quanto conta per te la tua famiglia: tua madre, tuo padre, tuo fratello?
«La mia famiglia conta al cento per cento. Perché senza la famiglia non riesci a capire quel lo che realmente hai ottenuto. E senza famiglia tutto è più difficile. Più cresci e più capisci e apprezzi i valori che ti hanno proposto, i principi che ti hanno insegnato, il rispetto per le persone più grandi. Questo fa sì che diventi una persona veramente con dei valori importanti».
Qual è il goal più bello che hai fatto, secondo te?
«Sono due. Sono un po’ indeciso. O quello a Milano con il pallonetto a Julio Cesar, oppure quello al volo contro la Sampdoria a Marassi di sinistro. Bella lotta. Non è semplice, uno è di destro uno è di sinistro, perciò…».
Te li ricordi tutti i goal?
«Sì».
Ogni tanto sogni il calcio tu?
«No, ogni tanto sogno che sto finendo di giocare. Quello sì, purtroppo sì. Però è la realtà, è la realtà che ti porta a pensare questo. Da una parte sono contento lo stesso perché ho vissuto venticinque anni d’amore, venticinque anni di passione, venticinque anni che non mi sarei mai aspettato».
Cosa ti mancherà quando smetterai?
«Mi mancherà lo spogliatoio, mi mancherà il campo, mi mancherà scherzare con i compagni, i ritiri. Tante cose che purtroppo non ci saranno più. Però me li voglio godere fino alla fine, finché posso».
Qual è lo scherzo più efferato che hai fatto ad un compagno?
«Oddio, mi metti in difficoltà. Scherzi ne abbiamo fatti tanti. Il più banale era nascondersi dentro l’armadio in ritiro negli alberghi quando andavamo fuori casa. Vito Scala o Cassano venivano, chiamavano un giocatore e mentre lui passava tu aprivi le porte dell’armadio e strillavi e lui zompava. Bisogna pur far passare il tempo».
Senti, se dovessi dire ad un bambino che cos’è il calcio che cosa gli diresti?
«Mamma mia, spiegarlo non è semplice. Gli direi innanzi tutto di divertirsi, di pensare solamente a divertirsi e di non pensare a niente altro. Poi, con il tempo, se vedi che hai la passione, hai il divertimento, hai la possibilità di poter giocare ad alti livelli lo devi prendere veramente come un lavoro, devi diventare un professionista. Un ragazzo di sani principi, deve accantonare tante cose. Come ho fatto io a diciassette anni, devi mettere da parte molto perché o pensi al calcio o pensi a divertirti. Se ti dedichi al calcio devi pensare solamente al calcio e basta. Però è anche vero che, come dicono tutti, vent’anni vengono una volta sola e perdere quel periodo, i piaceri e i divertimenti, dispiace. Insomma devi trovare un equilibrio. Ma il calcio è un lavoro serio, non un hobby».
Pensi anche tu come Sarri che il campionato sia finito?
«Finito no, nel calcio mai dire mai, però sappiamo che la Juve è di un’altra categoria. Negli ultimi cinque anni hanno dimostrato veramente di essere di un altro livello. Cercheremo di dargli filo da torcere fino alla fine, però sappiamo che non è semplice. Siamo coerenti con tutti: con noi stessi e con la gente che ci viene a vedere. Loro sono i più forti, noi siamo in seconda fascia. Ma non molliamo».
Chi è il difensore più cattivo che hai incontrato? Quello che ti ha proprio fatto più male?
«Più cattivo in campo, dal punto di vista umano non lo conosco ma mi hanno parlato benissimo di lui, è stato Montero. Montero era un cagnaccio, un cane che mozzicava veramente in tutte le parti del campo, in tutte le parti del corpo, anche. Era duro, entrava duro. Ma anche questo fa parte del calcio».
C’è un angolo di Roma che tu preferisci?
«Io preferisco tutto di Roma. Anche perché tanti angoli non li ho ancora scoperti. Tante cose a Roma non le ho potute vedere in questi anni e spero più avanti di poterle ritrovare. Ogni angolo di Roma ha la sua bellezza, la sua ricchezza. Voglio assaporarle tutte. E voglio tornare a Via Vetulonia. Ho tanti ricordi belli, sono cresciuto là, ho iniziato con i primi calci e ho conosciuto tanti amici. Perciò prima o poi andrò a salutare tutti».
Tutte le figurine le hai tenute?
«Figurine dei calciatori… quando costavano 250 lire a pacchetto. Mia madre diceva ma tu sei matto, tutti ‘sti soldi per le figurine. Io dicevo: ho capito, ma io ho la passione per il calcio, solo quella…. Lei mi diceva vabbè ma tanto alla fine le troverai dagli amici tuoi. Poi gli scambi, le cose, i mazzetti. Però ce le ho ancora tutte e adesso Cristian sta facendo tutto quello che ho fatto io».
E le tue figurine le hai tutte, quelle che ti ritraggono in questi venticinque anni?
«Sì».
E dove le hai?
«A casa».
Da parte?
«Sì».
Conservi i ritagli dei giornali, i dvd?
«Inizialmente sì, poi man mano che andavo avanti no, perché mi stancavo, stavo sempre sui giornali… Mi sono detto: meglio stare fuori da tutto».
Che cosa pensi dell’informazione, dei giornalisti che pensi?
«Alcune volte esagerano. L’importante è che scrivano le cose vere e non quelle senza senso, perché scrivere tanto per scrivere non è giusto».
Tu sei una persona felice?
«Molto».