Da oggi è in edicola una bellissima intervista di Daniele De Rossi rilasciata al settimanale 11 Undici, in cui il centrocampista di Ostia parla di se stesso, del suo rapporto con Totti da amico e compagno di squadra, nonché del suo futuro e, ancor prima, del suo contratto. Eccone uno stralcio:
“Sto bene. Sono felice. E’ un annetto che ho ricominciato a sentirmi un calciatore fino in fondo. Un calciatore di livello alto. Vero”
Che cosa è successo?
“Prima ero sceso di prestazioni, era diminuita la convinzione che il mio fisico potesse reggere nel calcio italiano ed europeo a certi livelli. Poi, un po’ la mia caparbietà, molto l’Europeo e il pre-Europeo con Conte e tutto il lavoro che ha fatto Spalletti e questa grande squadra che ha creato, hanno fatto sì che tutto fosse più facile. Poi resta che non sono un giocatore alla Messi”.
In che senso?
“Non sono uno di quei calciatori che se sono in forma portano risultati da soli, ma che se non lo sono possono comunque fare la differenza. Io devo stare bene fisicamente per fare il mio calcio, ma ho anche bisogno di una squadra che mi sostenga. Sono un ingranaggio. Ed è da un po’ che s’è incastrato tutto: arriva Conte, ti motiva in certi modi quando le cose non andavano bene, l’Europeo va in una certa maniera, anche se poi finisce male, ma è stato comunque un campanello: a certi livelli ci puoi ancora giocare e anche bene. Poi la Roma ricomincia e la stagione, sia dal punto personale sia dal punto di vista di squadra, va bene, e quindi tutto mi ha fatto orientare verso il fatto di essere ancora un ottimo calciatore”.
Hai parlato di ultima fase della tua carriera…
“Perché arrivi a un certo punto e pensi a quando smetterai. Ci sono quelli che vogliono smettere presto, quelli che vogliono smettere a 40 anni: io penso di voler fare una via di mezzo. Voglio chiudere con grandissima dignità. Se dovessi vedere che non c’è più una condizione accettabile e che non sto più al ritmo dei miei compagni smetto, ma non come autoflagellazione, autopunizione, semplicemente come una presa d’atto delle cose. Ma oggi mi sento forte. Mi sento ancora un calciatore vero”.
Non è cambiato il calcio?
“È il mondo che è cambiato, non solo il calcio. Che fai, te la prendi con i giovani calciatori? Ma lasciali stare, che ci vuoi fare? A volte danno fastidio pure a me quando li vedo. Quando fanno la diretta Instagram dallo spogliatoio prima della partita io gli darei una mazzata da baseball sulla bocca. Ma hanno 18 anni e tra venti anche loro si ritroveranno quello di 18 anni che farà un’altra cosa per cui diranno: “Ma dai, quando eravamo giovani noi c’era De Rossi che ci faceva a pezzi se avessimo fatto una cosa così”. A volte noi calciatori facciamo un po’ di populismo, di chiacchiere. Frasi come: “Il nostro non è un lavoro, i veri eroi sono quelli che si alzano alle 5 di mattina per andare a lavorare”… Sì è vero, vabbè, ma basta dirlo”.
Sempre convinto che ci sia un po’ di pregiudizio nel confronti del calciatore troppo ricco e che ha conquistato la ricchezza troppo presto?
“Non posso cambiare giudizio. Tu sei pagato da un privato che facendo giocare te e i tuoi compagni ha determinati incassi. E’ un investimento come un altro, quasi. Guadagniamo troppo? Sì, ma dipende da come la guardi. Magari nasci in America, giochi a baseball e guadagni ancora di più. Però di nuovo: guadagniamo troppo? Sì. Guadagniamo troppo per l’importanza di quello che facciamo? Sì. E’ stato semplice guadagnare così tanto? No”.
Com’era Daniele bambino?
“Felice. Non mi è mai mancato niente, non abbiamo mai navigato nell’oro: mio padre giocava a calcio in serie C, mia madre era la segretaria del presidente dell’Eni. Il primo choc l’ho avuto a sette anni e mezzo quando è arrivata mia sorella e l’altro piccolo choc era spostarsi per seguire mio padre: non mi è mai piaciuto tantissimo, non ho le cicatrici dei miei ripetuti spostamenti, però dovevi andare in altri posti, eri sempre quello che aveva il dialetto diverso. Mi ricordo un primo giorno a scuola, a Rimini. Papà giocava nel San Marino, ma noi vivevamo a Rimini. Andiamo a parlare con la scuola e ci dicono che i bambini in classe devono indossare un grembiulino rosso o blu. Mia madre me ne compra uno rosso e uno blu. Il primo giorno dice: “Oggi come ci vestiamo? Intoniamo il grembiulino a come sei vestito” e mi mette il grembiulino rosso. Sono andato a scuola, avevo i capelli biondi lunghi. Entro e scopro che il grembiulino rosso ce l’avevano le femmine. Ero piccolo, avevo 6 anni, ma me lo ricordo come se fosse adesso, mi hanno preso in giro pure i sassi. Questo è stato lo choc, dover cambiare, farsi accettare. Però oggi sono cose che ricordo con affetto. In realtà quando penso alla mia infanzia penso soprattutto alla felicità. E al fatto che ho iniziato presto a giocare a pallone”.
Nelle classifiche delle presenze dei calciatori nati nei settori giovanili in Europa e in Italia, la Roma è nelle prime dieci in Europa e prima in Italia…
“La Roma ha cercato di crearsi il talento in casa. Forse è per l’attaccamento dei tifosi che da bambini hanno come sogno di giocare nella Roma. E forse c’entra pure che ci sono stati anche dei momenti in cui la Roma non era così forte a livello economico, per cui provare ad allevarsi i giocatori in casa era anche una necessità. Poi è diventato un vanto. E qui c’è il lavoro nel settore giovanile di gente che sa lavorare. Perché Bruno Conti ha fatto benissimo per tanti anni. In più i ragazzi, gli allenatori, gli staff… la stessa Trigoria è una cosa che ti aiuta, oggi è un centro d’eccellenza. E per i ragazzi arrivarci è davvero un sogno”.
E che cos’è Trigoria?
“E’ un luogo per cui provo un affetto incredibile. Pensare che un giorno non sarà più la mia quotidianità mi fa male. Magari lo sarà in altre vesti, non lo so, però se penso che potrei non vedere tutti i giorno che ne so, Roberto Porreca, il magazziniere che vedo da quando ero nel settore giovanile, o i ragazzi del bar che mi hanno fatto la colazione più volte loro che mia nonna, mia mamma e mia moglie messe insieme. Ecco, se penso a queste cose mi viene il magone. E’ il posto che ho frequentato di più nella mia vita. Un’estate sono andato a liberare l’armadietto perché pensavo di andare via. Su quel viale, tra via di Trigoria e via Laurentina, i pianti si sprecavano, nonostante non andassi né in guerra né a fare una cosa che non mi piaceva”.
Il rinnovo del contratto è un pensiero continuo?
“No. E’ una cosa che prima o poi dovrò affrontare con la società. Ma non ci penso. E ho deciso di non parlarne. Ma voglio continuare a giocare ancora un po’”.
Neanche un dubbio?
“Ci può essere un dubbio su cento. Torniamo al discorso di prima. L’altro anno mi sono stirato quattro volte, se mi fossi stirato quattro volte quest’anno, visto che gioco per passione, perché mi diverto e non perché devo arrotondare, l’avrei pure preso in considerazione, anche perché ho dei progetti miei di vita per quando smetterò”.
Che progetti sono?
“Il più semplice è che il primo anno mi piacerebbe fare tanti viaggi, girare il mondo, girarlo con i miei figli. Faccio esempi molto banali, ma viaggiare è la cosa che mi riempie di più”.
E’ questo l’unico rammarico di essere rimasto a Roma? Il non aver visto altri posti?
“Sì. Non ho vissuto l’atmosfera di un altro Paese sia dentro gli stadi – penso agli stadi inglesi o a quelli spagnoli – sia fuori dagli stadi. Mi sarebbe piaciuto vedere come si vive da un’altra parte. Ho fatto sempre scelte consapevoli, anche se qualcuno le può considerare incoscienti. Invece ero conscio del fatto che erano scelte professionalmente ‘sbagliate'”.
Il paradosso è essere campione del mondo e non essere riuscito a vincere con la Roma
“E’ paradossale per i tempi. Perché ho vinto a 22 anni. Se vinci a 27 è un’altra cosa, a 22 invece significa iniziare con il botto e avere un certo tipo di aspettative. E’ stato velocissimo: prima l’Europeo con l’Under 21, poi la medaglia di bronzo alle Olimpiadi, poi a 22 anni boom: campione del mondo. Quella è stata forse la fregatura: non aver continuato a vincere. Forse se lo aspettavano tutti. In quei momenti avevo il telefono che scoppiava. Ogni giorno c’era una squadra nuova, ogni giorno c’era qualcuno. Mi dicevano: ‘Questo allenatore ti sta chiamando e ti vuole parlare, c’è questo presidente che ti fa il contratto in bianco e puoi mettere la cifra e andare quando ti pare’. Io la vivevo come una cosa bellissima, però poi alla fine c’era questo sentimento forte che mi rendeva anche abbastanza conscio del fatto che forse avrei vissuto male il distacco”.
Mai pensato: quanto è complicato stare a Roma per un calciatore? Soprattutto per un calciatore di Roma…
“Roma ti offre molte cose belle, ma ti offre anche molti momenti in cui pensi: chi me l’ha fatto fare? Chi ti dice che non c’ha mai pensato, dice una bugia. Una grande bugia, perché Roma quei momenti li offre eccome. E a volte te li sei meritati (…)”.
Com’è stato il caso Totti-Spalletti vissuto dall’interno?
“Era una situazione molto particolare. La pressione era enorme, come se fosse l’unico argomento possibile. La cosa che ho trovato sbagliata, sia nell’opinione pubblica, sia nella stampa, sia nel tifoso, non è tanto lo schierarsi, quanto il desiderio di schierarsi, la voglia di dire qualcosa a ogni costo. Io non sono mai intervenuto perché è come quando ti chiedono: ha ragione mamma o papà? Io un’opinione ce l’avevo, ce l’ho ancora, ma sarebbe stata solo una voce in più tra le tante, tre le troppe. A chi avrebbe giovato? (…)”.
Com’è il rapporto con Totti?
“Io mi sono permesso in questi 16 anni un lusso che a Roma si sono permessi in pochi: viverlo non solo come un idolo. Stare tutti i giorni con lui ti porta a vivere come una cosa normale l’essere accanto a un calciatore che non è normale- Perché quello che ha fatto non è normale, perché è un fenomeno e lo è stato per 25 anni. Rimane l’infervoramento che ho sempre avuto per il calciatore, ma l’ho sempre trattato come un mio compagno qualunque, come trattavo Tonetto, Cassetti, Vucinic per dire quelli a cui mi sono affezionato particolarmente. Come trattavo Pirlo in nazionale. Non perché il livello del calciatore fosse lo stesso, ma perché quando diventa un amico, il fatto che sia il più forte calciatore della storia della Roma, fra i cinque calciatori più forti della storia del calcio italiano – e secondo me, per certi versi, il più forte di tutti – non tocca la mia percezione di lui. Quindi, quando dovevo proteggerlo da un avversario, lo proteggevo, quando ci dovevo discutere ci ho discusso, quando qualcosa non mi stava bene gliel’ho fatto notare, quando dovevo mostrargli affetto glielo mostravo, e quando dovevo dire che era un coglione gliel’ho detto. Un lusso che a Roma non si permette nessuno. Perché qui, se dici che Totti ha sbagliato ad allacciarsi le scarpe, è lesa maestà”
Ma quanto è difficile, se è difficile, essere l’erede di Totti per quello che è lui per Roma e per il fatto che gioca ancora?
“E’ facilissimo. Smette, non smette, la fascia da capitano, sono tutti discorsi che a me non interessano. Io credo che si possa essere capitano anche senza indossare la fascia. E, soprattutto, puoi essere un grande capitano anche da vice. Ma, al di là di questo, è stato facilissimo perché non c’è mai stato dualismo. Forse si sarebbe potuto creare se avessimo avuto lo stesso ruolo. Si possono fare paragoni al massimo sul resto, sul modo di stare in campo, sull’atteggiamento, sul carattere. Ma per quello che calcisticamente gli viene riconosciuto in tutto il mondo, Francesco è irraggiungibile. Dal punto di vista del cuore, della gente, lui è unico. E’ amato da tutti perché ha fatto 300 gol. Io non sono amato da tutti perché non sono capace di fare 300 gol. Poi il mio carattere mi porta a dire ogni tanto qualcosa che non pisce, a dire quello che penso e che magari è fuori posto (…)”.
Spalletti?
“E’ stato l’allenatore che mi ha condizionato di più- Quello che ho avuto per più tempo. Mi ha preso che ero giovanissimo. Oggi mi rendo conto che quando lo sento parlare di un giocatore, di una situazione, di un movimento, io ho pensato la stessa cosa un’ora prima. Ho cominciato a vedere il calcio con gli occhi di questo allenatore. Ed è un bel vedere- Al di là di che cosa farò io, al di là che a volte ha un carattere difficile, la Roma dovrebbe fare di tutto per trattenerlo perché sarà più forte (…)”.
Mai pensato a un futuro da allenatore?
“Potrei farlo. Vedo tanti giocatori dire: ‘Io l’allenatore mai, quando smetto sto in vacanza una vita’. Poi, dopo sei mesi, farebbero qualunque cosa per allenare anche in Serie C. Io, invece, non lo escludo. Sono fortunato. Ho avuto due tra i dieci allenatori migliori del mondo: Spalletti e Conte. Il terzo è Luis Enrique. Con un altro, Guardiola, ho giocato, e se dovessi prendere una panchina chiederei di andare a guardarlo per imparare. Sì, l’allenatore potrebbe essere una cosa che mi piacerebbe fare. Non subito, ma con i tempi giusti mi potrebbe interessare”.