Alessandro Florenzi non molla mai. Il tuttocampista giallorosso ha rilasciato un’intervista a Walter Veltroni pubblicata sul Corriere dello Sport. Queste le sue parole:
La prima domanda è: come va?
«Va bene. Potrebbe andare sicuramente meglio, visti gli ultimi mesi. Adesso sono concentrato sul recupero, ovviamente senza darmi, anche per ragioni scaramantiche, un tempo definito di rientro. Quando starò bene tornerò in campo. E non vedo l’ora, perché giocare mi manca come l’aria».
Come è stato il primo incidente?
«Il primo è stato contro il Sassuolo, su una palla alta. Ho preso una piccola spinta da dietro e, quando sono ricaduto, ha ceduto il legamento del ginocchio. Invece il secondo è accaduto in allenamento con i ragazzi della Primavera. Ho fatto una torsione e mi sono fatto male. Pensavo di stare troppo bene e invece non era così. Sono entrato in campo con l’idea, dentro di me, di non aver avuto niente, non aver riportato l’infortunio. Avevo fretta e voglia di tornare al mio gioco. Forse è stato quello il mio sbaglio: rientrare e pensare di aver superato tutto. Mentre un crociato devi sapere che ti segna la vita e che da quel momento dovrai lavorare ogni giorno con la coscienza di aver subito questo infortunio. Devi sapere che per i prossimi dieci, quindici anni, o fino a quando Dio vorrà che io giochi a pallone, tutti i giorni devi sapere che hai avuto questo problema e che devi lavorare tutti i giorni per prevenire, per fare in modo che non ti succeda più».
Ora fa palestra?
«Faccio tutti i giorni palestra, è dura. Ma so che quando avrò finito non potrò dire: “palestra non si fa più perché sto bene”. Devo mettermi in testa che tutti i giorni dovrò fare qualcosa per assicurarmi che il ginocchio stia bene, le muscolature stiano bene. Altrimenti di carriera ne faccio poca, invece ne voglio fare molta. Questa è la mia volontà e la mia totale disponibilità alla fatica».
Psicologicamente il secondo incidente come è stato? Peggio del primo?
«Sì. E’ stato peggio del primo perché non me l’aspettavo. Il primo l’ho sentito proprio. Una botta tremenda, un dolore lancinante, sul ginocchio. Capisci subito e ti dici che può succedere. Il secondo no, mi sentivo troppo bene perché potesse accadere. Psicologicamente è stata una mazzata. Non posso negarlo, perché altrimenti sarei un falso. Per fortuna avevo a casa mia moglie e mia figlia che mi hanno sostenuto con amore dal 28 di ottobre, quando mi sono operato la prima volta. E poi i miei familiari, mia mamma, mio papà, i miei amici che sono rimasti tutti stretti a me, hanno invaso per giorni Villa Stuart. La clinica alle dieci chiudeva e loro alle due stavano ancora dentro. A tutti loro sarò sempre grato».
Quando c’è stato il secondo incidente quanto pensava mancasse al rientro?
«Poco. Perché da lì alla partita con il Palermo restavano venti giorni. Erano altri venti giorni di lavoro e poi, dato che in quel periodo non c’erano partite con la Primavera, avevamo deciso che con il Palermo avrei potuto essere convocato direttamente in prima squadra. I giornali di Roma, sempre molto attivi, avevano previsto già tutto quanto e invece noi, tra virgolette, li avevamo quasi fregati perché nessuno si poteva aspettare che venissi già convocato con il Palermo. Purtroppo non è andata così. Però ormai questa è storia passata. Quindi pensiamo al futuro». (…)
Lei è uno strano caso perché, a parte il portiere, credo che lei abbia giocato in tutti i ruoli possibili. Forse le manca di fare il centrale di difesa…
«Ho fatto anche quello in una partita a Crotone nella quale eravamo rimasti in nove, contro il Varese. Visto come eravamo conciati ho detto “mi ci metto io” che dovevo fare? Non le dico cosa è successo: 2 a 0 per loro. Faccio un anticipo dalla difesa, marco mezza città di Varese e faccio gol. Però era finita, la partita».
Lei come si definirebbe? Qual è il ruolo che sente più suo?
«Non lo so. Non sto scherzando. Io ho questa capacità, non le sembri presunzione, di trovare le mie qualità, quello che posso dare alla squadra in ogni ruolo che ricopro. Perché magari tu mi dici gioca centrocampista. Ok gioco centrocampista, ma con le mie qualità, con quello che posso fare, con quello che posso dare alla squadra. Magari un inserimento in più che può darti il gol. Terzino o quinto di destra mi piace, perché giochi una partita tutta tua. Per esempio: da terzino hai molto più tempo per pensare rispetto a quando sei a centrocampo. Ho giocato un anno e mezzo fisso terzino destro, poi sono andato una volta a centrocampo. Non dico che mi sentivo spiazzato, però capivo che dovevo giocare più di prima perché hai mezzo tempo di meno. Da terzino hai l’opportunità magari di stoppare una volta il pallone, di pensare di più il gioco. In mezzo al campo tante volte non ce l’hai, devi giocare di prima. Però adesso come adesso largo a destra mi trovo veramente bene. Con qualsiasi schema di gioco».
Lei resterà sempre a Roma? Vuole fare come De Rossi e Totti?
«Una bella domanda questa. Non lo so, dico la verità, perché è difficile dirlo. Cambiano tante cose, cambiano tanti aspetti magari del tuo carattere, di quello che ti circonda. Penso: sì c’è la voglia di fare il percorso che è stato quello di Daniele, quello di Francesco. Loro sono irripetibili. Hanno fatto cose irripetibili. Francesco e Daniele sono il cuore della Roma e io, secondo me, non potrò mai arrivare a fare come loro. Quindi dico magari sì, può essere così. Però non è detto. Non mi precludo nulla, non posso precludermi nulla. Sarebbe anche bello giocare in altri posti, scoprirli, conoscerli. Però alla fine mi dico, dentro di me, che tutta la carriera a Roma sarebbe bello farla. C’è sempre quella parte di me che dice che sarebbe bello fare come Francesco e Daniele. Anche perché per ora siamo solo noi tre a poter legare la vita calcistica alla Roma e solo alla Roma. Forse è difficile che ce ne siano altri, a breve. Forse ci sarà Cristian, il figlio di Francesco, però non lo puoi mai sapere. Vivo giorno per giorno e vedo quello che mi si prospetta».
Che cosa è stato Totti per lei da ragazzino e cosa poi quando l’ha trovato qui a Trigoria?
«Da ragazzino un idolo. Come poi, quando crescevo, lo è stato Daniele. Uno dei primi ricordi che ho di Francesco è il gol con il Livorno in casa. Lui corre sopra la balaustra e io sono lì sotto che faccio il raccattapalle. E poi quando ha fatto centosette gol: tutti i bambini hanno la maglietta con quel numero. E io quella maglietta ce l’ho. Sta a casa. Poi quando stai in squadra con lui Francesco è tuo fratello. Ci parli di tutto, ci scherzi. Alle volte non pensi che sia Francesco Totti, pensi sia solo Francesco, una persona normalissima. Poi però vedi quello che succede fuori quando dici il suo nome. La stessa cosa quando parli di Daniele. Io con Daniele forse sono ancora più legato. Usciamo insieme, le nostre mogli sono amiche».
Anche in occasione dell’incidente credo che lui le sia stato vicino…
«Daniele… è stato lui a dire ai miei genitori e ai miei amici che mi ero rotto il crociato, la prima volta. Perché dopo il Sassuolo, invece di andare a casa, è sceso dall’aereo ed è venuto a Villa Stuart. E’ stato un gesto che non tutti avrebbero fatto. Questa è una cosa che mi rimane dentro, di Daniele. Il dottore voleva andare a dirlo lui, ai miei genitori e ai miei amici ma Daniele ha detto no, non andare tu, so io come dirglielo. E’ andato di là e e ha detto “tranquilli, Alessandro si è fatto male però non è un problema”. Mia mamma si è tranquillizzata, mio padre anche, anche perché lo aveva detto un giocatore e una persona come Daniele, del quale si fidano. Sono cose che ti segnano e fanno capire anche l’uomo che è Daniele».
Vincere a Roma è così difficile?
«La storia purtroppo dice questo. Siamo particolari. Perché un giorno alla Roma sei un campione e l’altro sei il giullare di corte che non riesce a fare un passaggio. Purtroppo Roma è questa. Se riusciremo a cambiare questa mentalità forse faremo qualcosa di importante perché i tifosi lo meritano, la città lo merita. Però l’ambiente non aiuta. Quante radio romane che parlano di calcio ci sono? Quanti siti ci sono che parlano di Roma tutti i giorni? Vuol dire che tutto il giorno si parla della squadra. Tutto il giorno vuol dire che trenta persone diverse dicono trenta cose diverse e la gente può anche condividerle tutte e quindi nulla è facile. Questo non aiuta. Al tempo stesso sai che se fai tre vittorie tutto diventa una bomba atomica di passione ed emozione. Quando vinci qui è come se vincessi tre trofei da un’altra parte. Perché poi la città impazzisce di gioia e di allegria».
Crede allo scudetto?
«Perché no? Finché la matematica non ci condanna io non smetto di crederci. Ci sono sette partite. Noi dobbiamo cercare di vincerle tutte e sette. Pensando partita dopo partita, pensando che siamo una squadra forte che può vincere con chiunque. Poi, ovviamente, ci vogliono tanti altri fattori. Però dobbiamo crederci».
Che cosa è un derby per un giocatore romano?
«Non è una partita come le altre. E’ una partita che fa storia a sé. Anzi adesso, rispetto a quando ho giocato il mio primo derby, si sente di meno. Prima arrivava un giocatore nuovo a luglio e doveva subito sapere in quale giorno c’era il derby. Parlando con Ciro Immobile, ci sentiamo spesso, abbiamo detto “Mamma mia però come si sente qua”. Gli ho detto: “E lo dici a me? Quando gioco ho un’ansia che neanche all’esame di Stato…”».