Il difensore giallorosso Federico Fazio ha rilasciato un’intervista al sito sportivo ultimouomo.com. Queste le sue dichiarazioni:
Sei cresciuto molto:
“Non sono stato solo io a crescere dalla gara d’andata contro la Fiorentina a oggi, ma tutta la squadra, e in molti aspetti: se i giocatori crescono individualmente anche la squadra diventa più unita, acquisiamo più sicurezza e fiducia l’uno nell’altro. Non è solo per Manolas o Rüdiger, ma è soprattutto merito del centrocampo, specie se giocano De Rossi e Strootman. La verità è che siamo tutti in grande forma, e questo permette a ognuno di migliorarsi”.
Difesa a 3 o a 4?
“Mi trovo molto bene con la difesa a tre, o anche con quella a quattro che diventa a tre in fase di possesso: il mister sa sempre qual è il modulo migliore, o più giusto, con cui schierarci anche in base agli avversari. Bisogna sapere come si imposta il gioco, la tecnica che ci vuole per fare il cinico, è importante nei compiti di una difesa a tre. Ma io giocherei ovunque, pur di giocare“.
Sugli inizi della carriera da centravanti:
“Non ci capivo niente, correvo molto più di quanto facessi da difensore, ma mi ha cambiato la visione di gioco, l’approccio anticipato alla manovra. Non ho una posizione preferita: al centro mi trovo bene, ma per esempio contro il Milan o la Lazio ho giocato centrale di sinistra, e anche con l’Inter o il Napoli laterale“.
Sull’adattamento in Italia:
“La Serie A è molto simile alla Liga, si gioca un calcio molto tattico, che mi piace abbastanza; ma forse è stato più facile per me, perché sono stato avvantaggiato dal tipo di vita che si vive a Roma, dalla cultura; l’Italia per noi argentini è come casa, sono Paesi con caratteristiche molto simili, condividiamo le stesse radici. Roma poi somiglia molto a Siviglia, mia moglie dice che le trova uguali anche se con le dovute proporzioni, ma anche a Buenos Aires: sono città molto futboleras, in cui si vive con grande attaccamento al gioco, anche se poi non saprei dirti bene com’è giocare a Buenos Aires, ho sempre giocato in Segunda e non è proprio lo stesso che giocare in un club grande”.
Sul peso di Perotti sulla scelta di venire a Roma:
“Ero venuto già a trovarlo a marzo scorso, era qua da un mese soltanto ma si trovava già molto bene; sono venuto a vederlo a Trigoria, agli allenamenti, Roma mi ha colpito da subito e quando è uscita fuori la possibilità di venire qua è stato facile accettare”.
Sul rapporto con la Nazionale con Sabella, nel 2014:
“Comincio a dubitare che mi chiami: sono regolarmente tra i titolari a Siviglia, riconosciuto in Spagna, mi sento in forma, mi piacerebbe avere almeno una chance, ma da quando c’è Sabella questa chance non è mai arrivata. Magari adesso non tanto, dopo dieci anni di carriera finisci per essere più conosciuto, ma prima forse venivo dalla Segunda, non sono passato per un club importante in Argentina, magari la gente non aveva avuto modo di conoscermi davvero… Mi dispiace non aver avuto l’opportunità di dimostrare il mio valore. Ci sono molte partite, eliminatorie, amichevoli, mondiali: forse però uno vuole avere il suo gruppo ben formato. Anche se se stai facendo le cose per bene un premio, insomma fa sempre piacere ricevere un riconoscimento al lavoro che stai facendo… L’importante è sempre guardare al futuro, per la Nazionale… chissà, pure per quella italiana”.
Sul suo idolo, Walter Samuel:
“In quegli anni, al Mondiale del 2002, quando lo seguivo, anche qua a Roma e prima nel Boca, di cui ero tifoso, pensa che in quel periodo neppure giocavo come difensore. Però aveva un modo di essere leader, Samuel… Non era tanto il suo ruolo in campo, che mi attraeva, ma il ruolo nella squadra, da leader. Mi piaceva per la stessa ragione pure Batistuta, per dire”.
Sull’esperienza al Tottenham:
“Mi è sempre sembrato un campionato vistoso. La guardavo in tv: l’ambiente mi attraeva molto, l’atmosfera. E poi il fatto che ci fosse un ct argentino (Pochettino era appunto appena stato nominato ct degli Spurs) è stato un incentivo per scegliere il Tottenham quando ho deciso di cambiare club. Il primo anno ho giocato 33 partite, mi sentivo bene. Non al livello top, però insomma. Poi, dopo dieci anni di carriera, per la prima volta già prima dell’inizio della nuova stagione (quella 2015-16, NdA) sapevo che non avrei giocato mai, perché mi hanno comunicato che non rientravo nei loro piani. Ambientarsi alla Premier League è più difficile: si gioca un calcio molto diverso da tutti gli altri. Ci sono più 1 contro 1, più ribaltamenti di fronte, molti più spazi, meno tattica, molta poca tattica. Anzi, diciamo che non ci si lavora proprio sulla tattica. È tutta questione di fisicità. La squadra deve prima di tutto star bene fisicamente, la differenza poi la fa quello che un giocatore sa fare di per sé, il suo livello tecnico. La verità è che tutte le partite si giocano allo stesso modo, non si studia il rivale: ogni squadra ha il suo stile e rispetta solo quello, senza troppa attenzione al resto, senza cambiare mai. È divertente vedere le partite, ma solo per il tifoso, per gli spettatori che sono sugli spalti, per le occasioni da gol… Ma è sempre la stessa cosa. Non c’è tattica, non c’è pianificazione. Praticamente il centrocampo non esiste: stai attaccando, termina l’azione e già stanno attaccando te. È un po’ noiosa, per un calciatore. Non hai margine di crescita, non impari a studiare, fai sempre le stesse cose. Non cambi posizione, non apprendi nulla tatticamente”.
Come diventare un leader:
“Bisogna avere ambizione, e poi consapevolezza. Fare tesoro delle cose che ti capitano. Aiuta certo anche aver giocato, in carriera, con altri leader: capire qual è il loro ruolo, apprendere quanto più puoi. Poi in realtà è qualcosa che devi avere dentro: non ci si sveglia la mattina dicendo voglio essere un leader, e quando sei giovane devi osservare e capire chi è che comanda, apprendere da lui, seguirne i consigli. Il mio riferimento fuori dal calcio? Mio fratello più piccolo, che ha dodici anni”.